Le tensioni commerciali tra Unione Europea e Stati Uniti, riaccesesi con l’ipotesi dell’introduzione di dazi del 25% da parte dell’amministrazione Trump, stanno alimentando timori significativi per il mercato del lavoro di tutto il Continente e, in particolare, dei Paesi a maggiore vocazione manifatturiera come Italia e Germania. Il rischio è che un simile provvedimento renda i prodotti europei meno competitivi sul mercato americano, con conseguenze potenzialmente gravi per l’occupazione. Secondo nostri calcoli, basate su dati OCSE, il rischio è la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, in un intervallo compreso fra 30.000 e 65.000 unità di lavoro annuo (ula). Le nostre soglie sono coerenti con quanto stimato dallo Svimez, che ha individuato un intervallo di posti a rischio compreso tra le 27000 e le 5300 ula, di cui l’87 per cento circa nel Centro Nord e il 13 per cento al Sud.
Nel 2023, l’Italia ha esportato complessivamente beni per 638 miliardi di dollari, di cui 70,9 miliardi destinati agli Stati Uniti. Si tratta dunque di circa l’11,1% dell’export totale, una quota di rilievo che coinvolge numerosi comparti industriali. Secondo dati aggregati dell’Observatory of Economic Complexity e del sito di ricerche TheGlobalEconomy.com, i principali settori che guardano oltre Atlantico sono quello farmaceutico, con vendite per circa 5,47 miliardi di dollari, e l’automotive, che sfiora i 5,09 miliardi.
L’eventuale introduzione di dazi al 25% aumenterebbe sensibilmente il costo finale dei prodotti italiani negli USA, con un inevitabile calo della domanda. Se si considera un’elasticità della domanda (PED) intorno a -0,5, la quantità richiesta potrebbe ridursi di circa il 12,5%. In valore assoluto, ciò corrisponde a una flessione di 8-9 miliardi di dollari sulle esportazioni totali.
Il comparto manifatturiero in Italia incide per circa il 15% del PIL e impegna oltre 4,5 milioni di lavoratori. Una riduzione dell’export verso gli Stati Uniti potrebbe costituire lo 0,4% del PIL nazionale. Se si ipotizza che ogni punto di calo del PIL corrisponda a uno 0,75% di riduzione dell’occupazione, è verosimile attendersi decine di migliaia di posti a rischio, soprattutto in aree industriali già provate da instabilità economiche precedenti.
I settori a più alto rischio
L’automotive italiano esporta negli Stati Uniti vetture e componenti per un valore annuo stimato (sempre nel 2023) in circa 5 miliardi di dollari. Con un’occupazione totale di oltre 268.000 lavoratori e margini già ridotti dalla concorrenza internazionale e dalla crisi strutturale di settore, il comparto potrebbe patire un calo consistente degli ordini. Le simulazioni più accreditate ipotizzano 1.600-1.700 posti di lavoro a rischio nel caso di un calo del 12,5% della domanda.
Le esportazioni farmaceutiche italiane verso gli USA raggiungono i 5,47 miliardi di dollari (in alcuni studi si arriva a stimare fino a 7 miliardi, includendo vaccini e prodotti correlati). Vista la natura essenziale di molti farmaci, stimiamo l’elasticità della domanda tendenzialmente a livelli più bassi (-0,2). Una contrazione del 5% potrebbe comunque costare qualche centinaio di posti di lavoro, con cifre medie che variano da 300 a 600 lavoratori potenzialmente coinvolti.
Al di là dei settori di punta, gran parte dei 30.000-65.000 posti ipotizzati a rischio si concentra nel restante tessuto industriale — meccanica di precisione, moda, macchinari, agroalimentare di qualità — comparti che spesso dipendono in misura rilevante dall’export per sostenere i volumi produttivi.
Un aspetto che potrebbe mitigare solo parzialmente l’impatto dei dazi sul fronte occupazionale è la risposta dell’UE. Bruxelles ha annunciato di essere pronta a “reagire con fermezza e immediatezza” qualora Washington decidesse di avviare una politica di barriere commerciali penalizzanti. È possibile che l’eventuale innalzamento delle tariffe venga controbilanciato da dazi di ritorsione su prodotti simbolo d’oltreoceano, con l’obiettivo di riportare gli Stati Uniti al tavolo negoziale.
Parallelamente, le aziende italiane potrebbero rimodulare le catene di approvvigionamento o assorbire parte dei costi, per non perdere accesso e competitività sul mercato americano. In alternativa, alcune imprese potrebbero cercare di espandersi in mercati emergenti o puntare con più decisione sull’innovazione e sul posizionamento di gamma alta, riducendo l’incidenza dei costi di eventuali dazi.
Per contenere gli effetti della contrazione dell’export, il reskilling (formazione per nuove competenze) e l’upskilling (aggiornamento delle competenze) costituiscono soluzioni complementari alle tradizionali politiche industriali. In particolare:
Programmi mirati: corsi specializzati per i lavoratori in comparti potenzialmente colpiti, soprattutto nella transizione verso servizi ad alto valore aggiunto, verso nuove tecnologie produttive e verso nuovi mercati internazionali.
Collaborazione con l’industria: la creazione di poli formativi, in sinergia con associazioni di categoria e imprese, può accelerare il reimpiego dei lavoratori.
Sostegno alle PMI: incentivi pubblici e semplificazioni sono essenziali per permettere anche alle piccole e medie imprese di investire nella formazione dei dipendenti.
Best practice internazionali: proprio dagli Stati Uniti si potrebbe mutuare il modello del Trade Adjustment Assistance, cioè l’offerta di percorsi finanziati di riqualificazione e ricollocamento dei lavoratori occupati nei settori maggiormente esposti alla competizione globale. Per questo tipo di strumenti, per qualche tempo, ci sarà ancora la possibilità di attingere al Programma GOL – Garanzia Occupabilità lavoratori.
Queste misure, oltre a contenere i rischi immediati di disoccupazione, potrebbero contribuire ad accrescere la resilienza complessiva del sistema economico, favorendo l’evoluzione del manifatturiero verso produzioni più tecnologiche e a minor intensità di lavoro manuale.
In sintesi, la prospettiva di dazi al 25% da parte degli Stati Uniti rappresenta un’incognita di primo piano per l’industria italiana, specialmente nel manifatturiero, dove la dipendenza dalle esportazioni transatlantiche (sia quelle dirette, sia quelle indirette per le imprese italiane che partecipano alle filiere di prodotti europei, in primis tedeschi) è rilevante. Sebbene l’impatto esatto dipenda da molteplici fattori — tra cui l’entità precisa degli eventuali dazi di ritorsione e la capacità delle imprese di diversificare i mercati — le nostre analisi suggeriscono un potenziale shock occupazionale da non sottovalutare.
Per arginare lo scenario più critico, il Paese dovrà investire ancora di più in tecnologie e competenze. Solo in questo modo sarà possibile fronteggiare con maggiore solidità le oscillazioni della geopolitica commerciale, assicurando al contempo la tenuta del mercato del lavoro, in attesa di tempi migliori.